Aspetto rimasto fino a pochi decenni fa ai margini del dibattito italiano e degli studi sul tema, nonostante la sua rilevanza, è quello dell’emigrazione femminile. I dati, soprattutto relativamente al primo grande esodo, ci parlano di una preponderanza di uomini tra le fila dei migranti. Accanto a loro ci furono però molte donne, la cui presenza fu solo apparentemente “invisibile”. Inserito nel più ampio contesto di riferimento, proprio delle varie fasi migratorie, questo particolare fenomeno ha assunto via via connotazioni diverse, anche in relazione alle condizioni socio-culturali di ciascuna epoca.
Tra la fine dell’Ottocento agli anni ‘30 del secolo successivo, le donne che espatriavano alla volta delle Americhe lo facevano perlopiù a seguito della famiglia, oppure raggiungevano gli uomini a posteriori, viaggiando con un parente maschio. Non vi era una reale possibilità di scelta per molte di loro perché la decisione in genere spettava al marito, ai fratelli o ai genitori. Le difficoltà affrontate erano invece identiche, identici i muri da abbattere nei paesi “delle grandi opportunità”: la difficile traversata nel ventre inospitale di un bastimento, la fatica della vita quotidiana, i pregiudizi e tutto un mondo da ricostruire lontano dai propri affetti.
Oltre ad occuparsi della casa e dei figli, per contribuire al bilancio familiare le donne svolgevano i lavori più umili, spesso nel servizio domestico. Il loro ruolo fu però molto importante anche per l’intera collettività. Le donne resero permanente la scelta migratoria e contribuirono di fatto alla creazione e al mantenimento delle comunità italiane nei paesi di destinazione. Furono inoltre custodi delle tradizioni di origine, fondamentali per la trasmissione dell’identità italiana attraverso le generazioni, e si fecero mediatrici tra la propria cultura e quella locale.
In prima fila, accanto ai connazionali, si batterono per rivendicare i propri diritti di cittadine. Esemplare in tal senso la famosa protesta del 1907 a Buenos Aires, battezzata “la huelga de las escobas” (lo sciopero delle scope), in cui donne e bambini manifestarono per le strade della città contro l’aumento degli affitti e le ripercussioni delle forze dell’ordine.
Nel secondo dopoguerra, alla ripresa dei flussi migratori, partirono in molte per raggiungere mariti e fidanzati lontani, ma il ricongiungimento familiare non era più l’unica ragione. Nuove istanze, frutto dei tempi che stavano cambiando, emersero a rovesciare un ruolo fino a quel momento passivo. I paesi europei, ad esempio, iniziarono ad accogliere le giovani, spesso anche minorenni, che partivano da sole e a decine di migliaia cercavano lavoro oltre i confini nazionali per aiutare le famiglie rimaste in patria. Nelle liste di espatrio del 1948-49 il 25% delle emigranti era catalogato come “domestica” o “casalinga”, altre venivano registrate “in condizioni non professionali” o come “personale di servizio e fatica”.
In Belgio, Svizzera e Germania vivevano perlopiù in baracche, in cui davano alloggio anche a parenti o “bordanti” (compaesani senza famiglia, che ricambiavano con un piccolo contributo in denaro). La Svizzera, in particolare, fu interessata da una vera e propria immigrazione femminile di massa proveniente dall’Italia. Qui, afflitte dalla nostalgia per la propria terra e i propri cari, le donne spesso subivano un duplice distacco: non potendo accudire i propri figli, ancora neonati, li affidavano alle cure dei nonni nel paese natio.
Oltremanica, tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta, degli immigrati italiani che giunsero prevalentemente dal meridione (in particolare da Campania, Calabria e Sicilia), la maggior parte erano donne. Secondo i dati del British Census del 1951, ben 20.498 contro 12.661 uomini. Alla base di una percentuale tanto alta ci fu il consueto ricongiungimento familiare, a cui si aggiunse il caso delle “sposine di guerra”, che seguivano i soldati inglesi al momento del ritorno in patria. Ma non solo. Di richiamo fu il crescente impiego di personale femminile nei più diversi ambiti lavorativi, dall’agricoltura all’industria pesante e tessile, ma soprattutto nei servizi, tra cui ristorazione e commercio.