Il cuore antico di Santa Elisabetta, l’ultima dimora di Minosse

Una scena della Pastorale 2016 di Santa Elisabetta - Dal video pubblicato su youtube   https://www.youtube.com/watch?v=8UJWPfE5tiA

Una scena della Pastorale 2016 di Santa Elisabetta – Dal video pubblicato su youtube
https://www.youtube.com/watch?v=8UJWPfE5tiA

Non sempre è possibile alla prima occhiata comprendere la nuova vita di un paesino senza rileggere la sua storia, che a volte diventa l’unica chiave possibile. Soprattutto quando è dal mito che nasce la narrazione di un luogo. È il caso di Santa Elisabetta, un piccolo centro collinare di appena 2000 anime, tra il fiume Platani e quello del Salso, in provincia di Agrigento. Chiuso all’orizzonte tra la montagna “del Comune”, monte Benedetto e quello più noto Monte Guastanella, candidato per le sue bellezze archeologiche e ambientali tra i monumenti mondiali da tutelare della World Monuments Watch List grazie all’indicazione avanzata da Ray Bondin, commissario Unesco ed esperto riconosciuto di Patrimonio mondiale. Una nomination importante che, se dovesse arrivare, aiuterebbe a far conoscere ai viaggiatori del mondo un lembo di territorio capace di unire mito, storia e archeologia alla straordinaria bellezza della suo paesaggio.

La Sabetta (in siciliano) di oggi infatti appare piuttosto recente. In effetti lo è perché fino al 1955 era una frazione di Aragona. Ma “ha un cuore antico” scrive nel saggio “L’ultima dimora del re” Rosamaria Rita Lombardo, che sembra avere individuato nelle viscere del monte Guastanella, di cui è in gran parte proprietaria, la tomba di Minosse. Nel libro l’autrice ricorda, con le stesse parole del grecista Dario Del Corno, che “la mitologia è paragonabile ad un labirinto di cui sembra essersi smarrito irrimediabilmente l’ingresso”. Un’accesso che di quella montagna e delle sue caverne la Lombardo sembra avere ritrovato attraverso la rilettura di fonti classiche e un’antichissima narrazione orale tramandata per millenni dal popolo, in particolare dal padre Nicolò Lombardo, che acquistò il feudo nel 1947, e dalla madre Giuseppina Gueli.

Storia e mito confermerebbero anche l’origine del toponimo Guastanella, in dialetto Uastanedda o Vastanedda, dal minoico Wastanedda, ovvero la “città del re”. Ma per comprendere la ragione per cui il sepolcro del re Minosse si troverebbe nell’Agrigentino è necessario partire dal mito di Dedalo, un architetto inventore, probabilmente ateniese, rifugiatosi in Sicilia ospite del re sicano Cocalo per fuggire dalle ire del re cretese. Quando però il re scoprì dove si fosse nascosto Dedalo, comandò al re sicano la riconsegna. Ma le principesse si opposero perché il geniale architetto costruiva per loro balocchi divertenti. Così lo aiutarono a uccidere Minosse. Secondo questa ricognizione la sua tomba si troverebbe nel ventre sabettese di quell’altura. Se fosse convalidata da esperti concederebbe piena veridicità storica ai miti antichi e alla loro trasmissione orale.

Al di là della leggenda (leggila interamente), sono tante le suggestioni del monte Guastanella per gli appassionati di archeologia. Dalla sua sommità fino ad arrivare a valle, sono stati ritrovati reperti bizantini, ceramiche protostoriche e protogreche. In cima ci sono i resti di una fortezza araba, costruita dai bizantini a difesa degli attacchi saraceni e antiche grotte scavate nella parete; scendendo si possono apprezzare anche le tombe “a forno”.

In uno scenario ugualmente duro ma di grande bellezza svettano le tre cime di Monte “del Comune”, che sovrastano prorompenti il paesino. A valle c’è l’antica sorgente del fiume Akragas e ai suoi fianchi le suggestive necropoli di Keli, di età tardo romano-bizantina, con le sue tombe ad arcosolio adattate probabilmente dai primi cristiani su una precedente necropoli protostorica rintracciabile dalle tombe “a forno”.

Quella di Sabetta dunque è una storia mai scritta, ma affidata allo scorrere tempo. A cominciare dal suo toponimo che deriverebbe dal nome di Santa Elisabetta a cui sono particolarmente devoti gli abitanti, nonostante il patrono sia Santo Stefano Promartire. Si racconta che una principessa araba fosse passata in quella terra e commosso la sua gente con la sua umanità. Convertitasi al cristianesimo, la nobildonna era fuggita da casa per andare a vivere tra i pastori, condividendo la loro povertà e alleviando le loro sofferenze.

Tracce della storia di questo paesino si ritrovano in piazza San Carlo, che determinò il nuovo assetto del paese, nella settecentesca chiesa di Santo Stefano, patrono del paesino, e in quella di Sant’Antonio costruita nel 1860.
Certamente abitata in epoca assai remota come dimostrano le tombe sicane del primo millennio avanti Cristo rinvenute ancora intatte nel sito di Keli, i “primi” natali di Santa Elisabetta risalgono comunque al 1620. Anno in cui fu fondata da Nicolò Giuseppe Montaperto, Marchese di Raffadali dopo avere ricevuto dal viceré Villena (il 15 febbraio 1610) la possibilità di edificare e popolare il suo fondo Cometa, terra impervia ma piena d’acqua. Tanto ricca che nella licenza del viceré si legge “dictum pheudum est fructiferum et defectu incolarum non est cultum” (detto feudo è fertile e per mancanza di abitanti non è coltivato). Probabilmente perché la gente che vi abitò andava e veniva senza mettere radici. Per questo l’antico feudo perse la sua autonomia riacquistandola solo nel 1955.

Probabilmente l’unica storia scritta di Sabetta è il canovaccio della sceneggiata “Pastorale di Nardu”, una delle più antiche sagre popolari siciliane, che il 6 gennaio di tutti gli anni richiama turisti e abitanti dei paesi vicini.

Tra fede e folclore, con l’arte della mimica, la Pastorale riproduce la vita contadina e dei pastori attorno al protagonista “buffone” Nardu, che incarna la profonda ingenuità. Insieme a lui moltissimi altri personaggi, ciascuno con il suo mestiere:‘u picuraru, ‘u curdaru, ‘u cardunaru, ‘u massaru, ‘u cacciaturi e tanti altri.

Al centro della messinscena, che inizia la mattina dell’Epifania e termina con l’Annunciazione della nascita di Gesù, c’è il momento della transumanza. Quando una masseria e tutti gli animali sono costretti a spostarsi per la scarsità di cibo verso un’altra zona più ricca di pascoli.

La sceneggiata, accompagnata dalla sagra della ricotta con la degustazione di prodotti tipici locali, inizia nelle prime ore del mattino con tre “paladini” a cavallo che girano per le vie del paese per perlustrare il territorio e individuare un posto migliore dove spostarsi. Poco prima dell’ora di pranzo iniziano le rappresentazioni sceniche alla chiesa Madre, punto di partenza ideale perché la parte più alta del paese (la meno feconda) per concludersi “a valle” (più fertile), in piazza San Carlo.

Il momento laico si chiude a cena con il piatto tipico della pastorale: la pasta con la ricotta servita in un unico recipiente (‘a maiddra) da cui tutti si servono. Solo alla fine il rito annuale assume una connotazione religiosa legata all’Epifania, con una stella che guida un angelo e tre cavalieri (i tre re magi) che si fermano davanti alla grotta della sacra famiglia, dove arriva senza rendersene conto, prima degli altri, Nardu.

Il paese tra storia e mito: la leggenda di Dedalo e Minosse

Dedalo, un geniale architetto e scultore, probabilmente originario di Atene, dopo avere ucciso il suo assistente e nipote Talo per gelosia della sua maestria, fu accolto a Creta dal re Minosse.

Per la regina costruì una struttura di legno a forma di vacca, dove la moglie del re si nascondeva per unirsi al toro che il dio Poseidone aveva donato a Minosse perché lo sacrificasse, ma che il re cretese aveva invece sostituito con un altro toro di minore valore.

Dall’unione della regina con il toro nacque il Minotauro: un mostro con il corpo umano e la testa di toro. Per nasconderlo, Minosse chiese a Dedalo di costruire a Cnosso un labirinto, da dove fosse impossibile uscire.

Nel frattempo, uno dei figli di Minosse, Androgeo, venne ucciso dagli Ateniesi, che furono costretti dal re al tributo di sette giovani e sette giovinette da inviare ogni nove anni a Creta per essere divorati dal Minotauro. Al terzo tributo, Atene mandò Teseo di cui si innamorò Arianna, la figlia di Minosse. Per compiacerla, Dedalo le diede un gomitolo che doveva servire a Teseo per ritrovare nel labirinto la strada del ritorno dopo aver ucciso il Minotauro. Minosse però scoprì l’inganno e non potendo punire la figlia, fuggita nel frattempo con Teseo, rinchiuse nel labirinto l’architetto inventore con suo figlio Icaro. Per uscirne Dedalo escogitò uno stratagemma: preparò grandi ali di penne, le incollò con la cera e le applicò sulle sue scapole e quelle di Icaro, spiccando così il volo. Nonostante le raccomandazioni del padre di volare basso, Icaro si alzò troppo e il sole sciolse la cera delle sue ali, precipitando e affogando nel mare Tirreno. Dedalo, invece, proseguì il suo volo e arrivò in Sicilia (ad Agrigento), dove fu accolto al servizio del re Cocalo.

Minosse continuava però a cercarlo. Per stanarlo propose una ricompensa a chi sarebbe stato in grado di far passare un filo attraverso il guscio di una chiocciola, sapendo che solo la genialità di Dedalo poteva riuscire nell’impresa. Avendo saputo della ricompensa infatti il re Cocalo propose la sfida all’ateniese, che trovò la soluzione spalmando del miele dentro la conchiglia, dove fece un forellino in cima e vi fece entrare una formica alla quale aveva legato un filo di lino, che l’animaletto trascinò con sé perché attratto dal miele. Il re sicano vinse la gara, ma implicitamente rivelò il nascondiglio di Dedalo. Minosse arrivò in Sicilia e chiese a Cocalo la riconsegna del fuggiasco. Ma le principesse si opposero perché l’architetto costruiva per loro balocchi e lo aiutarono a far morire Minosse nell’acqua bollente mentre faceva il bagno.

Una volta libero, Dedalo tornò ad Atene e divenne il capostipite della famiglia dei Dedalidi.