La Raffadali da scoprire, tra archeologia, storia e lamenti

foto aperturaSICILIA DELLE MERAVIGLIE “L’anima di un paese è, talvolta, negli occhi delle sue donne, in una sua via, in un paesaggio, a una cert’ora, in un frammento di statua, in un’arme arrugginita, in una canzone, in una parola. È un fiore, talvolta, l’anima di un paese”*. È ciò che accade arrivando a Raffadali, nata araba e cresciuta normanna. Oggi è un borgo rurale dell’Agrigentino, tra i fiumi Platani e Salso, ma fu fondato nel 1481 sulle rovine di un antico casale arabo, quando le sue terre furono concesse in feudo nel 1095 al normanno Girolamo Montaperto, la cui famiglia vi rimase fino all’abolizione della feudalità. Cominciò a popolarsi nel 1507 grazie allo “ius populandi” concesso dal re Ferdinando a Pietro Montaperto. Un secolo dopo, divenne anche un principato, ma agli inizi dell’Ottocento il piccolo centro perse tutti i diritti feudali e tornò ad essere un borgo rurale.

La Raffadali di oggi non si unisce agli altri antichi feudi del territorio per il fascino della “lentezza” e della silenziosità. Qui la gente la incontri sempre un po’ dappertutto, anche fuori dal proprio quartiere. Le giornate sono scandite da un via vai indaffarato, tra la spesa al mercato o nelle putìe (botteghe) e il lavoro degli artigiani, venditori e commercianti. Non è chiaro quanto riescano a raggranellare per tirare avanti, ma di qualunque cifra si tratti la loro vita è operosa e condivisa con il resto della comunità, non solo nei luoghi di “fatica”, ma anche in quelli di ritrovo e di partecipazione, per le strade, nei vicoli e nei piazzali. Forse perché la loro anima più autentica è rimasta ancora nelle mani laboriose degli arabi, che fondarono quelle terre un secolo prima che fosse espugnata dai normanni, chiamandola Rahl-Afdal, cioè villaggio eccellentissimo, dispensando benessere. Introdussero la coltura degli agrumi, del pero, dell’albicocco e del pistacchio, forse anche del carrubbo, organizzando con sofisticate tecniche di irrigazione anche la canalizzazione delle poche riserve idriche di cui potevano disporre.

La Rahl-Afdal di quel tempo lasciò tanto a questo antichissimo feudo normanno. La testimonianza più significativa è subito visibile appena fuori dal paese, al confine con il borgo di Santa Elisabetta, alla rocca di Guastanella. Dove si possono ammirare grotte e tombe preistoriche di età neolitica e una straordinaria fortezza, descritta come un esempio splendido di insediamento musulmano: sarebbe stata utilizzata come luogo di deportazione: lì sarebbe stato imprigionato più volte il vescovo di Agrigento Ursone.

Le origini di questo borgo sono dunque lontanissime. Circondato a poca distanza da diverse aree montuose, (il Giafaglione, il Cozzo d’Oro e monte Banco) e da una fertile campagna, ricca soprattutto di mandorleti che riforniscono le tante aziende dolciarie locali, il paese è inserito in un paesaggio di grande interesse naturalistico, oltre che affascinante. Leggenda vuole che ogni sette anni, nelle notti di luna piena, la collina di Cozzo Busonè a mezzanotte si apra mostrando monete d’oro e tesori di ogni genere. Ma al di là dei racconti popolari, è in questo colle che sono state ritrovate tombe a forno e a camera preistoriche e le due statuette delle “Veneri di Busonè” di epoca eneolitica, esposte oggi nel Museo archeologico di Agrigento.

Ma per gli appassionati sono davvero tanti gli spunti archeologici. Nelle vicinanze sono stati rinvenuti diversi insediamenti: dai frammenti ceramici della cultura Castellucciana (età del bronzo, 2000 a.C. Circa) ritrovati nell’area del Colle Palombara, alle macine, lucerne, monete e monili rinvenuti in contrada Torrevecchia, identificata dagli studiosi come la statio Pitiniana dell’itinerario Antonino, dove i romani si rifornivano di viveri durante le imprese belliche.
Un’altra necropoli con tombe a forno del 4000 a.C si trova sulla montagna Pietra Rossa; e un insediamento, con tombe ad arcosolio e a loculi scavati nella roccia del periodo tardo romano-bizantino (III-IV sec. d.C.), in località Grotticelle. Dove è stato ritrovato un sarcofago con la raffigurazione del ratto di Proserpina, esposto nella Chiesa Madre del paese. A pochi passi dal centro abitato, in contrada Buagimi, invece, si trovano i resti della piazzaforte saracena espugnata dal condottiero normanno Roberto d’Altavilla, detto il Guiscardo (l’Astuto).

Tra storia, arte, fede e folclore, una sosta a Raffadali impone una visita a Palazzo Montaperto (XVIII secolo), in passato residenza dei principi. Nei sotterranei si trovano antiche macchine di tortura e un tunnel che collegava la residenza alla chiesa Madre di Santa Oliva, edificata al centro del paese a partire dal 1507.
Ma ci sono tanti altri luoghi di culto da scoprire, dalla Chiesa barocca di San Giuseppe alle chiese del Rosario, del Ss.Crocifisso, di San Giovanni, della Madonna del Carmelo, di Sant’Antonio da Padova, fino al Convento dei Padri Francescani. Testimonianze di una religiosità che si colora di folclore durante le rappresentazioni e i riti della tradizione del triduo pasquale, ammirati ogni anno da una folla di visitatori che arrivano da ogni parte. Durante la celebrazione, gli attori locali rivivono la Passione di Cristo con il “mortorio” e le nenie funebri dei “lamentatori”: un pianto singolare, cantato da un solista con l’aiuto di un coro nelle sue note finali, che accompagna la veglia alla statua dell’Addolorata per più di una giornata, fino al momento della Resurrezione.

di Stefania Sgarlata

* Matilde Serao