BASTEREBBE LA SCALA DEI TURCHI O LA CATTEDRALE DI SALE PER EMOZIONARSI A REALMONTE
La natura a Realmonte è arte, che sbuca anche dalle viscere della terra. Basterebbe la sola Scala dei Turchi o la magnifica Cattedrale di sale per inserire il paese tra le prime tappe di un viaggio nell’Agrigentino. Ma non è così. Perché il piccolo borgo è anche un magnifico belvedere naturale che s’affaccia come una terrazza su mare e campagna, raccogliendo attorno a sé ogni cosa, distinta per colore. Dal bianco candido della spiaggia di Capo Rossello a quello più luccicante della marna della Scala dei turchi, tagliato dall’azzurro intenso del mare, che un po’ più in là si tinge dei riflessi rossicci delle rocce, e poi di grigio quando ci si avvicina alla miniera di salgemma, mescolandosi alla fine ai colori “terrosi” delle campagne.
Non sono semplici suggestioni: Realmonte ha uno dei litorali più lunghi e più belli della costa agrigentina, diventata anche meta degli amanti di trekking. Che possono vivere col fiato sospeso otto chilometri di panorama incantevole.
Ma non solo belvedere. Il paese è anche luogo di fede, cultura e mistero, che lo legano, in un tour affascinante, alla Chiesa Madre di San Domenico, l’unica del paese, ai riti della Settimana Santa, ai raduni dei lamentatori (il video), alle processioni e alle tradizioni religiose dedicate a San Giuseppe e San Calogero. E per chi volesse vivere un po’ di storia, anche archeologica, basta raggiungere la Villa Romana dei Durrueli (del primo secolo d.C.), collocata direttamente sulla spiaggia a pochi chilometri dal centro abitato e la Torre di Monterosso, uno dei migliori esempi di torrioni d’avvistamento di tutta l’Isola. Ma non mancano le leggende, raccontate tuttora da alcuni anziani come storie vere. Così le leggende di “Munti Russu”, della “Rocca Gucciarda” e quella dello “Zuccareddu” (ecco cosa si racconta).
Tornando al paese, dove vivono meno di cinquemila anime, il suo toponimo (dal latino Mons Realis) arriva dal nobiluomo Giovanni Monreale, che nel 1680 ottenne la licenza per popolarlo dopo avere acquistato nel 1650 il feudo di Mendola da don Giovanni Platamone, barone di Siculiana. Per lungo tempo, la gente del borgo visse di agricoltura, solo negli ultimi anni il turismo è diventata la parola chiave della sua economia. Ed eccole le quattro parole chiave: Scala dei Turchi, Teatro Costa bianca, Cattedrale di sale e Festa di San Calogero (guarda le immagini).
La Scala dei Turchi, già nota nel mondo grazie al commissario Montalbano di Camilleri, che nel suo romanzo cita spesso questi luoghi, è un “monumento della natura” di marna bianco scintillante, che ricorda una gigantesca scalinata. Morbida, “rotonda” e sinuosa, a picco sul mare, si è formata con l’azione erosiva degli agenti atmosferici, che hanno prodotto dei corrugamenti chiamati “calanchi”: un regalo ai viaggiatori di sfumature chiare e scure di eccezionale bellezza. Salendo in cima al promontorio, si può abbracciare con gli occhi l’intera costa agrigentina, fino ad arrivare a Capo Rossello. Secondo i racconti popolari è lì che i saraceni (arabi che la gente chiamava “turchi”), nel Cinquecento, si arrampicavano durante le loro incursioni di pirateria.
Per una suggestione in più, specie d’estate, quando si anima anche la sera con un cartellone di spettacoli ricchissimo, c’é il Teatro Costa bianca. Uno dei luoghi più ammalianti della zona costiera, ai piedi della baia di Capo Rossello, circondato dalla splendida arcata dei calanchi della roccia.
La natura a Realmonte, però, non smette di stupire A soli tre chilometri dal paese, in contrada Scavuzzo, scolpita nelle cavità di una miniera di salgemma, c’é una Cattedrale di sale, dove ogni anno, il 4 dicembre, si festeggia Santa Barbara, la patrona del paese. Scolpiti nella roccia si possono ammirare anche sculture sacre, statue e suppellettili, oltre alla mensa dei minatori, ricavata da un grosso blocco di sale. A circa 75 metri dalla superficie, lungo le pareti, s’incontra il “rosone”, una sorta di spirale che la natura ha formato con incredibili sfumature là dove si sono incrociati salgemma e altri sali. Oggi la miniera, a 150 metri sotto la superficie e a 30 dal livello del mare, è gestita da Italkali ed è una tra le più importanti fonti d’estrazione di sale d’Europa, con una produzione di circa 500 mila tonnellate di sale l’anno.
Passando invece alle tradizioni religiose, c’è San Calogero e i festeggiamenti, in suo onore, giocosi e spensierati, che si svolgono ad anni alterni con quelli dedicati a San Giuseppe. In genere nel primo fine settimana di Agosto. Le rappresentazioni ludiche si aprono con i tamburinai, che annunciano l’inizio della festa; continuano con l’antico gioco delle “pignate” (pentole) di terracotta appese alle corde tra i balconi delle abitazioni e riempite di acqua colorata, carta, a volte anche di conigli e colombe, che un uomo bendato dovrà rompere aggrappato sulle spalle di un altro; proseguono con l’albero della cuccagna, da cui penzolano carne, sigarette, bottiglie di liquore e altri generi alimentari. Alla fine dei giochi, la domenica, il Santo viene portato in processione a spalla dai confratelli, mentre i fedeli lasciano cadere pane dai balconi. Una tradizione popolare che richiama la leggenda secondo cui la gente lanciava dai balconi il pane per non avvicinarsi al Santo seguito dai lebbrosi.
Leggende
Il tesoro di Muntirussu Si racconta che persone umili ed oneste scoprissero un tesoro ogni sette anni. I fortunati, scelti per lo più tra la povera gente, venivano svegliati nel cuore della notte da certi “spiritelli” buoni, che li conducevano a Munti Russu, facendogli ritrovare sotto una pietra monete e zecchini d’oro in una quantità tale da trasformare i loro stenti in agi per tutta la vita. Ma a patto di non rivelare ad altri ciò che stava succedendo e di fare del bene al prossimo. Accadeva però che qualcuno s’impauriva e si confidava con qualche familiare, facendosi accompagnare nel posto stabilito. A quel punto trovava solo “scorci di babaluci” (bucce di lumaca di lumaca) e fondi di bottiglia rotti. Ancora oggi, certi anziani sono pronti a giurare che fosse tutto vero.
Le arance d’oro di “Zuccareddu” Quello di Monterussu non è l’unico tesoro di Realmonte. Il protagonista, questa volta, è un “burgisi” del luogo che aveva ordinato al suo garzone Peppe, nei giorni del carnevale, di andare ad arare la sua terra in contrada “Zuccareddu”. Così Peppe, il giorno dopo di buon mattino, sul suo somaro si recò nei campi e cominciò ad arare, quando si accorse che sotto il vomero c’era una giara di terracotta stracolma di bellissime arance. Stupefatto riempì le sue bisacce e le portò in un pagliaio vicino. Quando il padrone tornò, invitò il garzone a mangiare arance, ma Peppe declinò l’invito, raccontandogli del fatto successo e che aveva le bisacce piene degli stessi frutti. Ma non fu creduto.
Incuriosito, però, il padrone andò nel pagliaio e si accorse stupefatto che le bisacce erano piene di arance d’oro. Senza dire nulla le sostituì con le sue.
Si racconta che a distanza di molti anni, in punto di morte, senza figli e assalito dai rimorsi, “u burgisi” decise di fare un lascito testamentario alla Chiesa Madre del paese. Secondo alcuni, il fatto è solo frutto della fantasia popolare, ma di certo c’é che fino a qualche anno fa, negli ultimi tre giorni del carnevale, nella Matrice venivano celebrate le cosiddette “Quarant’ore di Zuccareddu” e il Santo veniva esposto ai fedeli per tre giorni.
“U scogliu do zitu e da zita” (lo scoglio dei fidanzati) di Capo Rossello Più romantica ma triste è la storia che si racconta sulla “rocca Gucciarda”. Che offre al tramonto la suggestione di due scogli vicini che sembrano due amanti. Leggenda vuole che Rosalia s’innamorasse di Peppe, un umile bracciante al servizio del padre di Rosa, un ricco signore di Realmonte. Un amore appassionato il loro, ma difficile perché osteggiato dal facoltoso padrone, che decise di allontanare la figlia rinchiudendola prima nel monastero delle suore Orsoline di Girgenti, poi più lontano, in uno sperduto convento di Palermo. Ma i due giovani, per rimanere “uniti per la vita e per la morte” decisero di togliersi la vita e si buttarono dalla rocca.
Si dice che, dopo alcuni anni, nel punto dove i due ragazzi si uccisero spuntarono due scogli legati tra loro da una sottile lingua di roccia. Chi ci crede ancora, con una buona dose di fantasia, racconta che prima di quella tragedia non esisteva in quel posto nessuno scoglio e che al tramonto e nelle notti di luna piena, quando il mare è in bonaccia, chi si trova a passare da lì può udire la triste nenia di una donna che canta il suo amore infelice. Quello scoglio ancora oggi, specie dai marinai, viene chiamato “U’ scogliu do zitu e da zita”.