TRADURRE: SICILIA DELLE MERAVIGLIE Sembra un miracolo che ci sia ancora. Bello e colorato, dentro e fuori. Se si ha tempo e voglia di capire cos’è il bene comune, non resta che fare una capatina a Montedoro. Un piccolissimo borgo abbarbicato nel cuore del Vallone di Caltanissetta tra le vecchie solfatare dismesse, a cui pare debba il suo toponimo per aver dato lavoro alla stragrande maggioranza delle abitanti del luogo. Ai montedoresi nati e cresciuti lì,però, piace pensare ancora che il nome derivi da una leggenda: si racconta che il principe Pignatelli, passando per il feudo Balatazza, rimanesse stregato dalla bellezza di tutti i fiori gialli che ricoprivano il monte Ottavio come un manto dorato , decidendo così di chiamarlo Montedoro.
Ufficialmente fondato nel 1635, quando il Viceré di Sicilia Duca di Alcalà concesse una Licentia populandi al principe Diego D’Aragona Tagliavia Cortez, oggi è un piccolissimo paesino di appena 1.700 abitanti, senza grandi pretese ma “speciale”, non tanto per la sua storia quanto per la sua rinascita.
Vocato fino al 1800 all’agricoltura e poi alle solfatare, quando le miniere chiusero e i più emigrarono in cerca di fortuna, la borgata si svuotò. Montedoro era destinato a diventare un paese fantasma. Ma con il passare degli anni, una governance capace, tanto virtuosa da mettere perfino a disagio, mattone su mattone, lo ha trasformato in un borgo con tutti i crismi.
“I servizi alla cittadinanza hanno un costo simbolico… e la cura degli spazi comuni compete a tutti i cittadini… ”, scrisse La Repubblica a dicembre del 2013. La prima impressione che se ne riceve è di un paese ordinato ed accogliente.
Per capire una tale efficienza basta “mettere piede” al municipio: due enormi porte a vetri lucenti si aprono da sé su un corridoio di marmo fiammante, dove campeggiano un grande tappeto con l’araldica del paese e un complesso di sculture “accoccolate” sapientemente lungo le pareti insieme a una filiera di quadri coloratissimi. Inusuale per un paese di queste dimensioni. Ma se capita di poter conversare con il primo cittadino (eletto dai montedoresi per ben sette volte), si trova la risposta: gentile e di poche parole, solo quelle che servono, dedito esclusivamente alla cura del paese e della sua comunità: in due parole al bene comune. Quel preziosissimo valore che si respira ovunque passeggiando per Montedoro: 14 chilometri quadrati riempiti con tutto ciò che serve ad una comunità in ogni settore, da quelli produttivi, come l’artigianato e la pesca, a quelli sociali e ricreativi, della cultura e del turismo.
Non manca niente a Montedoro: un teatro per l’inverno e un’arena per l’estate (con programmazioni stagionali puntuali), un Osservatorio astronomico, un Planetario, sei Case museo, due alberghi e diverse case-vacanza, una biblioteca di 25mila volumi, un paio di piscine con spazi ricreativi e sei musei, tra cui spicca quello della Zolfara e un altro, già in cantiere, dedicato all’emigrazione. Senza per questo dimenticare i servizi: ben quattro centri d’incontro, distinti per età (per bambini, giovani e anziani), un palazzetto con spazi ricreativi e didattici e una “casa delle donne”. Ma non è finita. Per dare un sostegno concreto ai giovani, il Comune ha affidato loro la gestione di alcuni beni sociali e turistici in cambio del pagamento di un canone, creando occupazione a costo zero. Anzi, guadagnandoci.
Un’attività di mecenatismo costante che affiora in ogni angolo del paese, dal “Parco” di sculture a cielo aperto, distribuite tra le vie più suggestive e donate al Comune dagli artisti di tutto il mondo che hanno partecipato a Montedoro alle diverse edizioni di un simposio internazionale di scultura tra il 1994 e il 2001, alle Case Museo, comprate e restaurate per raccontare la civiltà contadina e gli antichi mestieri, che custodiscono antiche attrezzature, utensili e oggetti d’arredo.
Lasciando il borgo, sono due le tappe imperdibili, il Parco scientifico e il museo della Zolfara.
Il primo è un cammino appassionante, attraverso sentieri curatissimi e attrezzati, verso monte Ottavio, dove spiccano vicini l’Osservatorio e il Planetario. Due incredibili strutture che fanno “viaggiare” nello spazio (comodamente seduti) alla scoperta di fenomeni straordinari e dei misteri dell’universo: dai movimenti della terra e dei pianeti attorno al sole, alla nascita e la morte delle stelle; dalle nebulose, alle galassie e le costellazioni. Un grande spettacolo, fruibile in qualunque momento, di giorno e di notte, basta prendere un appuntamento.
Il secondo, sempre a monte Ottavio, porta dritto al museo della Zolfara, costruito nei luoghi della vecchia miniera “Nadurello”, che a quel tempo, dove tutto mancava, rappresentava tutto: struttura sociale, comunità, paese. Come in tutti gli altri paesini del triangolo minerario del Vallone, anche a Montedoro, lavoro e villaggi vivevano in simbiosi come in una gabbia, facendo quotidianamente i conti con la gravità dei pericoli a cui erano sottoposti i solfatari. Una drammaticità evocata nel museo dai quattro plastici realizzati dallo scultore Roberto Vanadia, che ha ricostruito gli ambienti delle cave e le condizioni di vita dei minatori, in particolare dei “carusi” (ragazzi), spesso poco più che bambini. Anche nella “Zolfara”, come in paese, non mancano le opere d’arte. Nel cortile si potranno apprezzare una serie di sculture di popolani, realizzate in terracotta nel 1998 da alcuni allievi dell’accademia di Brera (Milano), seguiti dal maestro Nicola Zamponi. Immancabili le raffigurazioni di Leonardo Sciascia e Luigi Pirandello, i due scrittori siciliani che più di altri hanno ben rappresentato il mondo dei solfatari, di cui ormai non si ricorderebbe più nessuno se non ci fossero impianti, spesso fatiscenti, ad attirare gli interessi di certi studiosi. “La zolfara non esiste più“, ricordava Sciascia. “Rimangono echi, come segnali su piste abbandonate, a renderci conto di quello che la zolfara (o solfatara, come una volta veniva denominata) è stata nelle sue valenze antropologiche, sociali, psicologiche: e quello che essa comportò di infelicità, di umiliazione, e pure di intraprese, di avventura umana, di esodi spavaldi e disperati, di bassezze e di coraggio, di prepotenze e di arroganze, di ricchezze rapide, di crisi, di abominevoli sfruttamenti (…)
Era la “cultura della Zolfatara”, prima voce dell’economia isolana, che si respirò nell’aria per quasi due secoli, richiamando l’attenzione di tutti i Paesi in via di industrializzazione. Ci ammazziamo a scavarlo, poi lo trasportiamo giù alle marine, dove tanti vapori inglesi, americani, tedeschi, francesi, perfino greci, stanno pronti con le stive aperte come tante bocche a ingoiarselo: ci tirano una bella fischiata e addio! (…)”, scrisse Pirandello nell’opera “Il fumo”.
di Stefania Sgarlata