Il mondo nuovo di San Cataldo tra solfare, boschi e giganti
SICILIA DELLE MERAVIGLIE Da Agrigentino a Nisseno. Quello che una volta fu “Casale Calirone” (dal greco scorre bellamente), attraversato dal fiume Salito da cui prese il suo primo toponimo, e poi “baronia di Fiume salato” in terra dei Templi, con nove feudi e nove terre comuni, oggi si chiama San Cataldo. Che scorre ancora bellamente assieme alla vita dei suoi 23mila abitanti, fregiandosi di una traboccante area naturalistica e di un’affascinante area archeologica, in provincia di Caltanissetta. A ridosso degli ultimi lembi dello storico bosco di Mimiani, ricordato in diverse opere del Seicento per l’abbondanza della selvaggina, dei pini, dei carrubbi e dei mandorli. Appena fuori dal paese, scorrono paesaggi rurali che cambiano improvvisamente, tra dossi spogli e impervi e campagne morbide che sbucano dai tornanti tra le mura alte di pietra grigia. Non è difficile imbattersi in scene di antica vita rurale, incontrando qualche contadino dal viso scavato assieme al suo mulo o un pecoraio con i pantaloni rammendati e la verga in mano che allontana lestamente pecore e capre verso il ciglio della strada con l’aiuto del suo cane a guardia del gregge per far passare un’automobile.
La cittadina è anche a una manciata di chilometri dalla riserva naturale del Lago Sfondato, dalla necropoli di contrada Balate Vallescura e quella bizantina di Bosco Saline, dal fortilizio arcaico di Monte Mimiani e dai resti di una città antichissima, dell’età del Bronzo, in contrada Vassallaggi, lungo la grande strada che univa Agrigento a Enna.
C’è tutto un mondo nel ventre di quel Casale, forse difficile da raggiungere, ma facile a conquistare. Ieri era anche il mondo dei picconieri e di Ciaula, il caruso di Pirandelliana memoria, oggi è un mondo nuovo. Che aggiunge al suo capitale ambientale le emozioni delle aree occupate dalle vecchie miniere dismesse, che dagli Cinquanta fino al 1980 furono fonte di benessere, ma anche di tanto dolore, facendo di quelle terre l’attività mineraria di punta di tutta Europa. Era da lì che partivano circa 3.500 tonnellate di kainite al giorno.
Oggi gli ex giacimenti sono due veri musei a cielo aperto, dove si possono ammirare reperti di archeologia solfifera mineraria: dalle discenderie e i forni Gill per la fusione dello zolfo, dalle calcarelle e i calcheroni agli spogliatoi dei minatori. Vale la pena percorrere i sentieri che portano alla miniera Gabbara, diventata un’area protetta visitabile nel 1992 insieme all’area di Mustigarufi. Ad agosto ospita anche il Campfest, un’importante manifestazione musicale. È un cammino emozionale da replicare alla ex miniera di Apaforte e Stincone, probabilmente una delle più antiche miniere siciliane, già attiva dal XVIII secolo. Accompagnati da una guida esperta, si può arrivare fino al noto scaluni ruttu (gradino rotto), che i carusi (ragazzi) erano obbligati ad attraversare decine di volte al giorno con enormi pesi, addentrandosi poi nelle caverne spogliatoio, dove i minatori si cambiavano per indossare i vestiti da lavoro. È da questo grande patrimonio che San Cataldo oggi è ripartito per la sua sfida ambientale, culturale, antropologica e turistica.
Elevato al rango di città nel 1865, il centro urbano invece si mostra con un assetto contemporaneo, ad eccezione delle tre torri civiche civili e degli edifici religiosi. Come la chiesa
di San Francesco d’Assisi, inglobata all’ex convento dei cappuccini dal 1724 (oggi ospizio per anziani), che custodisce la statua della Madonna Assunta, portata in processione dai fedeli il 15 agosto; la chiesa Madre (una volta Natività di Maria), il principale luogo di culto della comunità, edificata dal barone Vincenzo Galletti di Fiumesalato nel 1632. Ricostruita 63 anni dopo dopop il crollo di una parte della cappella, rimase nuovamente chiusa fino al 1979 per i danni causati da un incendio; e le chiese dei Padri Mercedari, del Rosario e di Santo Stefano.
Passando alle torri, una è inglobata alla chiesa del Ss.mo Rosario, l’altra alla parrocchia del Cristo Re. La terza, la più antica, è quella di Monte Taborre, costruita dal barone di Fiume salato a difesa del paese, che fu demolita e poi ricostruita nel 1780. Quando fu ripristinata, vi fu installato un orologio che batteva le ore su due campane a più riprese, svegliando all’alba gli operai e i minatori per andare al lavoro, gli scolari alle otto per andare a scuola e a mezzogiorno segnava l’ora della pausa dal lavoro. L’ultima scampanata era a mezzanotte per richiamare i nottambuli non ancora rincasati. Ma la cosa più curiosa era il motivo che ribatteva ai suoi abitanti “Vacabunnu va a travaglia” (vagabondo vai a lavorare), che ancora oggi i Sancataldesi emigrati all’estero ripetono quando s’incontrano come segno di riconoscimento. Accompagnando l’imprecazione a un sonoro fischio.
Sponstandosi nella zona alta della cittadina, c’è il complesso monumentale del Calvario (1854), restituito di recente alla collettività e ai fedeli di tutta l’Isola arricchito da grandi pannelli di ceramica, realizzati dalle migliori scuole artigiane d’Italia, che raffigurano le scene della Via Crucis (chiamate vare) e della Via Lucis. La sua imponente scalinata è anche teatro di diverse manifestazioni. Ogni anno, durante la Settimana Santa, si svolge la “Scinnenza”, un evento che si ripete da un secolo e mezzo, durante il quale si rievoca la Crocifissione e la Morte di Cristo.
Ma i riti della Settimana Santa, tra devozione, tradizione popolare e folklore, sono anche “la festa dei giganti”. La Domenica di Pasqua sfilano i Sampaoloni (in sancataldese Sampauluna), giganti di cartapesta a mezzo busto, alti 3 metri, che raffigurano gli undici apostoli (tranne Giuda) per rappresentare il tradizionale incontro di Gesù Risorto con la Madonna e la Maddalena. Un’antichissima tradizione che risale intorno al XVIII secolo.
Tra storia e racconti popolari Il paese deve la sua fondazione al principe Nicolò Galletti nel 1607, che richiese la licenza di popolare l’antico casale Caliruni al Re di Sicilia Filippo III.
Il borgo fu consacrato a San Cataldo (di Taranto) per la devozione dei Galletti. Racconto popolare vuole che il Santo Vescovo Cataldo, patrono di Taranto, si ritrovasse in Sicilia a causa di un naufragio e che peregrinando arrivasse in quel villaggio. La comunità, affascinata dalle sue prediche, lo invitò a rimanere, ma Cataldo desiderava ritornare in patria e si rifugiò una notte in una grotta in contrada Bifuto, che da allora la gente del luogo chiama zona di sancatalluzzu. Durante il sonno, gli apparve in sogno un angelo che gli comandò di proteggere la comunità assegnando il suo nome al villaggio. Per questo il Santo è raffigurato con un mazzo di musciariddu (grano) in mano, in segno di augurio di una buona raccolta.