L’emigrazione della popolazione siciliana si inserisce nel contesto del grande esodo su scala nazionale che, in poco più di un secolo, dall’Unità d’Italia, ha coinvolto più di 21 milioni di persone: quasi l’ammontare dell’intera popolazione italiana al momento dell’unificazione.
Le prime fasi: le colonie africane
Sul finire dell’Ottocento gli spostamenti dalla Sicilia coinvolgevano prevalentemente il bacino del Mediterraneo: la meta privilegiata era la Tunisia (nel 1870 vi giunse il 94 % degli espatriati siciliani). Qui i tradizionali istituti giuridici arabi incoraggiavano l’acquisto delle terre, favorendo la formazione di colonie di proprietari coltivatori che, con il loro lavoro, contribuirono a far prosperare il paese. La preponderanza dei siciliani era notevole anche sul numero totale degli immigrati italiani: ben 4/5 dei 100.000 coloni.
Ma è proprio sul finire del secolo che inizia lo spostamento di massa, destinato ad entrare nella Storia con il nome di “grande emigrazione”. Dapprima, tra il 1876 e il 1900, il fenomeno interessò soprattutto il Nord Italia. Il Sud guadagnò il primato nel corso dei due decenni successivi, con in testa proprio la Sicilia, che contribuì al flusso migratorio per il 12,8 % con 1.126.513 emigranti. Il “ritardo” iniziale dell’isola nel prendere parte a questo primo esodo fu compensato dalla velocità con cui crebbe il numero degli emigranti, fino a raggiungere una notevole portata. Da terra di immigrazione, crogiuolo di lingue, culture e tradizioni che nei secoli accolse popoli dal Mediterraneo al Nord Europa, la Sicilia si apprestava a diventare terra di emigrazione.
Le nuove destinazioni: Nord Europa e America
Chi lasciava le proprie case e abbandonava con dolore la propria vita di sempre, guardava soprattutto alle terre al di là dell’Atlantico. Un aumento degli spostamenti oltreoceano iniziò a registrarsi verso il 1885, crescendo a dismisura fino alla Prima Guerra Mondiale e toccando l’apice nel 1913, con 146.061 individui. Le Americhe apparivano lontane, certo, e i biglietti per imbarcare i propri sogni su un transatlantico erano costosi, ma anche raggiungere il nord del continente europeo non era semplice. Basti pensare che il costo del lungo viaggio in treno superava quello sostenuto per raggiungere in nave il “nuovo mondo”.
La meta privilegiata furono gli Stati Uniti: di tutti gli emigrati in ingresso tra il 1890 e il 1913, nove su dieci erano siciliani, che vi arrivavano per cambiare il proprio destino. La tendenza si conferma anche considerando l’intero Mezzogiorno, la cui emigrazione si concentrò per il 90 % verso il continente americano (con gli USA al primo posto).
Il flusso diminuì poi tra le due guerre e a questa diminuzione si accompagnò un bilanciamento tra il numero degli espatriati e di coloro che ritornavano, la cui percentuale era assai esegua prima del 1914. L’avvento del Fascismo e il contesto internazionale ebbero importanti conseguenze in tal senso: negli Stati Uniti degli anni ’20 vennero infatti promulgate leggi sull’immigrazione, che stabilirono delle quote per ogni nazionalità, discriminando i paesi dell’Europa sudorientale e frenando bruscamente l’ingresso degli italiani nel paese.
Chi erano gli emigranti?
I numeri ci danno l’idea della portata di un fenomeno indissolubilmente legato alla storia della Sicilia, e con essa di tutta Italia. Tanto le testimonianze storiche quanto la finzione letteraria e cinematografica hanno popolato l’immaginario collettivo di volti speranzosi o smarriti, di valigie legate con lo spago e navi traboccanti di gente, e su tutto il grido che si levava all’apparire del primo lembo di terra all’orizzonte: “America!”. Ma a chi appartenevano quei volti? Chi erano gli emigranti che raccoglievano le proprie vite e le proprie storie e partivano in cerca di fortuna, lasciandosi alle spalle gli affetti e la terra natia? Inizialmente, circa l’80 % era costituito da uomini e la maggioranza aveva un’età compresa tra i quindici e i quarant’anni. Contadini, agricoltori e braccianti, perlopiù analfabeti (nel 1871 il tasso di analfabetismo nazionale era del 67,5 % e nel Mezzogiorno saliva al 90 %). Accanto a loro artigiani, muratori e operai. Un unico grande sogno per la maggior parte di essi: partire per ritornare. Molti videro sfumare questo desiderio, ma tra il 1861 e il 1940 due terzi degli emigrati fecero poi ritorno in patria.
La diffusa povertà che caratterizzava l’Italia e la voglia di riscatto da condizioni di vita difficili sono le ragioni alla base della scelta di partire. Lo scenario è completato dalla crisi agraria di fine Ottocento, nonché dal declino degli antichi mestieri artigiani e delle industrie domestiche. Al Sud si aggiunsero poi le conseguenze del sistema successorio, che portò al progressivo frazionamento delle proprietà, rendendole insufficienti a garantire il sostentamento. Accanto a queste motivazioni, concorsero anche fattori di “attrazione”, come la massiccia richiesta di manodopera, proveniente in particolare da Francia, Svizzera e Americhe.
Una nuova vita, tra duro lavoro e pregiudizi
Una volta a destinazione, ad attendere gli emigranti c’erano sfide e sacrifici: non solo la nostalgia che stingeva la gola ma anche una nuova lingua da imparare, una cultura differente in cui integrarsi e una comunità locale spesso ostile, solitudine e duro lavoro.
La professione svolta variava in base al contesto locale. Negli Stati Uniti, ad esempio, gli italiani si insediavano principalmente nelle grandi città del Nord Est, privilegiando impieghi salariati e lavorando nelle fabbriche, nelle miniere e alla costruzione di infrastrutture, quali strade e ferrovie. La fatica quotidiana era inoltre aggravata da condizioni di sfruttamento e pregiudizi. Chi lavorava per un padrone (a Chicago, nel 1897, il numero era pari al 22%) era costretto a versare una tangente per ottenere lavoro e alloggio, oppure ad acquistare le merci solo in determinati spacci. Senza contare che molti si indebitavano prima della partenza, ricorrendo al credito e vendendo i pochi averi per pagare il viaggio.
Che si trovassero oltreoceano o in Europa, la paura e il disprezzo nutrito nei loro confronti investiva la vita quotidiana degli emigrati e si accompagnò a diversi episodi eclatanti, che videro purtroppo anche dei morti. Tra tutti si ricordano quelli di Aigues Mortes (in Francia) nel 1893 o di New Orleans nel 1901. A scatenare la violenza fu nel primo caso la disponibilità degli immigrati ad accettare salari più bassi, mentre nel secondo l’accusa di appartenere alla Mafia. Con lo spauracchio della malavita e le discriminazioni che affondavano le radici nel razzismo, i pregiudizi antitaliani si radicalizzavano in un più mirato sentimento antimeridionale. Nei primi decenni di immigrazione gli italiani del Nord e del Sud venivano ad esempio censiti separatamente, in nome di una presunta appartenenza a due diverse razze: quella “celtica” e quella “mediterranea” (i siciliani in particolare vennero catalogati come “non white”).
Ma quali furono, in patria, gli effetti di questo esodo? In corrispondenza dei picchi migratori, molti comuni subirono un vero e proprio svuotamento. Ne conseguì una scarsità di manodopera, che provocò un rialzo dei prezzi e una diminuzione delle colture.
D’altra parte, le massicce partenze determinarono un alleggerimento della “pressione demografica” per lo Stato. Le “rimesse” che i propri cari inviavano dall’estero e il ritorno dei cosiddetti “americani”, consentirono inoltre un lieve miglioramento nelle condizioni di vita di chi rimaneva.